Testo a cura di Riccardo Zerbetto
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Qualcosa
che avviene. Un accadimento della coscienza. Un fremito, un improvviso stupore,
un’emozione a cui ancora non sappiamo dar nome.
Difficile
dire il perché si determina e gli ingredienti necessari al suo manifestarsi. Il
fatto è che avviene, a volte. Non spesso, a dire il vero. Ma i suoi connotati
sono inconfondibili. Lasciano un segno nella memoria. Graffiano la superficie
levigata dello scorrere amorfo del tempo e inscrivono un segno nella nostra
storia di persone.
Cammini
per la spiaggia – nel nostro caso – ed ecco una radice affiorare sul
bagnasciuga. Le nervature del tronco hanno una torsione che richiama uno spasmo
forse di dolore o forse anche di piacere. La levigata superficie di questo
corpo sbattuto dalla tempesta alla deriva ed ora cullato dalla nenia incantata
delle onde che giocosamente ed instancabilmente la lambiscono … questo corpo
sofferto e quasi trasfigurato dal lavoro paziente ed amoroso degli elementi ti
aggancia, tocca corde del cuore di cui tu pure ti stupisci.
Il
vento, il sole, il mare, la sabbia ed il cielo … tutto concorre a ricreare un
qualcosa che produce un’eco nel tuo essere. Non è un fatto di mente. O di cuore
soltanto o di pure sensazioni. Quel prigione michelangiolesco o la torsione di
una baccante che si annidano tra le pieghe della memoria sono pronte ad
emergere, a sobbalzare nel petto alla vista improvvisa di quel corpo dilaniato
ed estatico. Ti fermi e non sapresti dire che cosa ti inchiodi a girargli
attorno, a lasciarti stregare dalle sue forme e dal gioco delle linee di forza
che lo anima struggentemente e lo fa contorcere. Resti lì, come un babbeo.
Altri passanti possono stupirsi di questo improvviso arresto di una quieta passeggiata
sulla riva del mare, ma in fondo ognuno avverte il richiamo di questo vivente,
come il grido di una vita che è stata e chiede, attraverso te, di essere
rievocata, di accennare al suo racconto, di gridare, pur muta, il suo nome.
Già,
il nome. Perché dovrebbe avere un nome il muto trancio di abete lavorato dal
tempo e dagli elementi che giace, solenne ed immemore, sul bagnasciuga?
Già,
perché dovrebbe.
Una storia, tuttavia,
anche lui ha avuto. E forse da raccontare. Si ergeva con le sue fronde maestose
al bordo di un bosco, non lontano dal fiume. Fino a quella notte di tempesta e
di paura quando le interminabili piogge e la piena del fiume scavarono crudeli
vuoti tra le sue radici … fino a strappare le ultime che disperatamente lo tenevano
abbarbicato alla terra che gli aveva dato i natali.
Lo
rapì con violenza la piena del fiume. A valle, sempre più a valle, attraverso
rapide crudeli dove ad uno ad uno si spezzarono tutti i suoi rami, fino a
lascialo spoglio di tutto se non di se stesso. Un tronco … privato della sua
stessa scorza, del vestito che da sempre indossava e che lo rendeva
riconoscibile ed insieme simile ai suoi simili. Il lungo lavoro – spietato –
delle pietre di fiume lo lasciarono nudo, bianco e lucente affidato infine alle
sabbie argentate della foce.
Quelle
lo accolsero e proseguono – e ancora prosegue – il cesello paziente per farne
un corpo trasfigurato di color cenere e madreperla sotto l’incanto del vento,
l’assalto irruente delle onde possenti, l’abbraccio spietato ed avvolgente del
sole per ore e per anni.
Una
storia di tutti. Una storia di ognuno. Con infinite varianti a quella vicenda
in cui anche noi, piccoli e grandi eroi del quotidiano e delle grandi
vicissitudini del mondo, siamo partecipi.
Forse
per questo ci riconosciamo in quegli spasimi, in quelle pose acquetate, ormai
fuori del tempo. Vediamo riflesse le luci e le ombre di cui pure è intessuta la
nostra stessa esistenza.
RZ
Anni
ed anni, difficile dire quanti, per consegnarci quest’opera. Unica ed
irripetibile anche se altre di simili si affiancano in una strepitosa - e misurata insieme – performance di
ricchezze.
Ricchezze da … cogliere
e … amare, forse. Se abbiamo avuto la ventura di ospitare un vuoto nel cuore.
Una cassa armonica che faccia risuonare le corde, forse anche flebili, della
suggestione e dell’evocazione. Se abbiamo raccolto nell’animo immagini e
sensazioni che per strane alchimie possano venire evocate da questi rari
prodotti del tempo e della natura.
Esempi
di co-creazione nei quali i diversi elementi hanno operato con incredibile
sapienza ed insieme con ignara – forse – fanciullesca, giocosa e crudele
ingenuità. Con divina noncuranza. Fino a consegnarci opere di intensità pacata
ed arrendevole nel loro offrirsi – gratuite – a nostri sguardi incantati ed
assorti.
Hanno
bisogno di custodi, forse. Di chi protegga queste opere dall’assalto
Ma
da quale assalto? Di chi le possa bruciare? Ma sono belle, a volte, combuste.
Almeno in parte. Da chi le trafughi? Ma perché non esporle … come cimeli
sottratti al loro contesto di origine e trasposte nella hall di un
grande albergo, in un giardino (meglio se pubblico), in un ufficio postale … a
diffondere il sapore del vento salato e della brezza di mare a chi è affogato
dallo smog e dallo stress del quotidiano?
Difenderle
dal bulldozer che a primavera ne fa un’amorfa catasta, come di corpi di
un esercito di vinti, per cremarli in una pira comune per farli a pazzi ed alimentare le stufe?
E
quanti guardiani e chi? Un turno di guardia diurno e notturno?
No.
Troppo grande il museo della natura e troppi i tesori da difendere … se non si
educa un custode nel cuore di ognuno che sappia vedere ed assaporare la
struggente bellezza che si annida nelle pieghe del giorno, nelle cose anche
minime o cosiddette tali.
RZ
No.
Chi scrive è un raccoglitore pentito. Ho saccheggiato per decenni questi liti
di (trasportabili) tronchi e di pietruzze. Ora mi accontento di carpirne il
fascino con l’illusione di una foto. Certo, come lasciare là quel busto
similmarmoreo di guerriero ferito che emerge dalle dune dimenticate dal tempo?
Sembra impossibile. Ma se ognuno portasse via queste opere della natura, quali
tesori potremmo ancora consegnare ai nostri simili, ai nostri figli che
calpesteranno questi liti ormai spogliati di anima e di corpi? Forse un’unica
eccezione: quella di asportare per valorizzare. Per offrire alla fruizione di
tutti, per affinare in chi è distratto il gusto per ciò che può apparire banale
ed ovvio. E non lo è.
La
morte dà il senso alla vita, si sa. Prima di vibrare il colpo di grazia ad una
specie ormai annientata ed in via di estinzione l’uomo ferma il suo braccio.
Quando fo ferma. Si chiede quale mondo consegnerebbe alle future generazioni se
l’oceano fosse privato di balene e tartarughe, il bosco dell’orso ed il cielo
del falco. Un mondo in cui sopravvivano (e per quanto ancora?) poche specie
confinate in riserve o allevate in gabbie per trasformarsi in proteine
preconfezionate e precotte dai sapori tutti uguali.
L’uomo
ha fermato il suo braccio prima del gesto estremo. O così ci auguriamo. Ha
deciso di salvare specie di piante e di animali. Ma perché non di rocce e di
sculture del vento? Anche queste opere del tempo e degli elementi meritano
un’attenzione amorosa e tenace perché non vada disperso un patrimonio – che più
ancora di quello delle forme viventi – rischia di estinguersi
irreversibilmente.
Nell’unico
intento di tutelare questa ricchezza della natura si giustifica il lavoro per raccogliere
queste immagini e queste parole.
RZ
Opera … di arte. Dicci,
chi sei? Cosa distingue gli innumerevoli oggetti e manufatti da qualcosa che
merita il tuo nome? Oggetti prodotti da chi, intanto? Dall’uomo o anche da Dio
… o dalla cosiddetta Natura se a presiederne la sapiente composizione non
possiamo immaginare una mente che la trascenda?
In
quanto arte, ci riferiamo ad un arte…fatto, al frutto di una manipolazione
della materia operata da qualcuno. Qualcuno, appunto. Un uomo che con
intuizione e pazienza si ingegna attorno ad una pietra sino a trarne la figura
di un dio o anche il vento che, con l’aiuto del mare e del sole, modella le
forme di una scogliera fino a lasciarci stupefatti per le sue forme?
Quale
che sia l’autore degno di accreditarsi il titolo di Art…ista, una cosa sembra
certa. Arte è la definizione a qualcosa, difficile da definire cosa, che ci
prende. Il ripetersi di oggetti – come le pietre lungo un arenile o i quadri in
un museo – viene interrotta da un oggetto che non ci lascia proseguire
indifferenti. Ci aggancia. Alle viscere prima che alla mente. Le gambe si
fermano. Non siamo noi a decidere di fermarci. Qualcosa avviene che ci
inchioda, che blocca anche il respiro. Forse non ci è chiaro ancora il perché.
C’è un richiamo a … qualcosa a cui ancora non riusciamo a dare un volto. Un
nuovo ed un antico che si agganciano inaspettatamente. L’opera, se la chiamiamo
di arte, “avviene” quindi nel vissuto di chi è catturato dalla sua apparizione.
E’ una piccola rivelazione. Atena è riconoscibile ad Ulisse ma non ad altri che
non sono attenti a cogliere l’epifania della dea. Altri passano e non vedono.
Ciò che io vedo, è noto, può anche essere diverso da quello che tu vedi. Si
tratta quindi di un incontro tra un oggetto ed un soggetto che produce il
“qualcosa”. L’opera quindi non è una prerogativa intrinseca dell’oggetto se
questa non si “rivela” producendo quell’inconfondibile vissuto a cui diamo il
nome di arte. Ma non l’arte “di fuori”, delle cose. Neppure l’arte “di dentro”
che possa prescindere dal mondo (seppure vissuti interiori possano avere un
alto valore estetico). L’arte dell’incontro tra un fuori ed un dentro.
RZ
Se l’arte nasce da un
particolare incontro tra un elemento fuori ed un elemento dentro,
come favorire questo evento? Si tratta
sicuramente di operare un lavoro sull’osservatore non meno che sull’oggetto da
osservare. Quattro ingredienti essenziali sono sufficienti ad un buon cuoco se
ha talento per l’arte del buon cibo. E viceversa una ricca dotazione di risorse
non garantisce il risultato di una gustosa pietanza se quei gusti non risultano uniti dalla magica
alchimia di sapori e colori.
Nel
percorso proposto in queste pagine viene radicalizzata la ricerca che propone
un minimo di intervento sulla “cosa” oggetto di osservazione a vantaggio di un
tentativo di affinamento della percezione dell’osservatore. Perché prelevare
queste radici disese sulla battigia, trapiantarle in un contesto alieno e
magari modificarne il colore con vernici o le forme con sega e scalpello? Si
può fare, ovviamente e forse anche con qualche successo. Tutto si può fare …
anche lasciale lì dove sono, sopite nell’oblio di una st oria dimenticata e che
pure ha lasciato tutti i suoi caratteri in un corpo percosso e levigato dalla
cura amorosa del tempo e degli elementi.
Gli
unici interventi sono stati quelli operati sull’osservatore. Da quale
angolatura emerge maggiormente quella torsione, quel gioco di luci che ne
amplifica il linguaggio corporeo? Con quale prospettiva di luce e di orizzonti
si rivela più drammatico il contrasto tra la tragicità eroica di un vivente
strappato alla sua terra di origine in balia di una infinita deriva e la luce
dorata che conferisce un alone di epica rivelazione alla storia narrata da
questo corpo?
Quale
gioco di venti costruisce una tessitura d’intorno che contestualizza la figura
in uno sfondo che lo accoglie esaltandone i profili? E quali luci del giorno,
come un orchestra di fondo, sono più consone a evocare emozioni su cui si
staglia il suono dello strumento solista?
A
questo tipo di meditazioni sulla materia ho dedicato i miei giorni di
riposo-lavoro, di ri-creazione immergendomi nell’universo di queste suggestioni
e di queste immagini. Un invito a condividerne alcuni sprazzi – per me –
indimenticabili.
RZ
Non
so. Forse stra-orinario. Quando ciò che appare nell’ordine delle cose –
se ben lo osserviamo - quasi lo trascende. Come quella pietruzza – una fra le
mille – che i nostri piedi calpestano nella passeggiata lungo la riva e che, a
guardarla bene, ha una nitida forma, una superficie sapientemente levigata, un
colore reso splendente dall’acqua che carezzevolmente l’onda le dona
accendendola di sempre nuova luce. Forse ha la forma di un cuore, o di un
cerchio quasi perfetto. O delle striature di colore chiaro che ne disegnano lo
spazio minuto.
Che
c’è di straordinario in tutto questo? Nulla, forse. O tutto.
Se solo la nota evocata
da quest’immagine ha una cassa di risonanza che le dia un po’ di eco. Che le
consenta di riverberare in uno spazio vacuo della mente, libera da fretta e da
contingenze. Non c’è molto di razionale in tutto ciò e ci sentiamo imbarazzati
a soffermarci a contemplare queste gioie minute come inseguiti da un giudizio (nostro
e/o di altri) di ridicolaggine. “Ma il cuore ha ragioni che la ragione non
conosce” ricorda Pascal, o almeno credo. Forse si tratta di fatti di cuore,
allora. O di pelle, di estetica. Di giochi di apparenze. Di puri giochi
gratuiti, dove non hanno spazio le ragioni dell’utile e del clamoroso, del
prezioso nel senso di costoso. Una mente - forse una mente del cuore – disposta
a “stare con” questo piccolo oggetto. Senza fretta. Con lo stupore bambino di
quando venimmo (ma come recuperare l’incanto di questi ricordi?) per la prima
volta a contemplare l’assolutamente straordinario di un mare infinito … e forse
ci aggrappavamo – intimoriti dal troppo grande - a quelle piccole pietre
splendenti che dalla battigia ci facevano occhiolino. Proprio a noi. E ammiccando
teneramente ci dicevano “portami con te”. O forse non accade più ai bambini di
raccogliere pietruzze o conchigliette dalle forme nitide e perfette, come ai
nostri ancestrali progenitori? L’età del bronzo e poi dell’oro … ed infine
della plastica ha tolto sapore a queste piccole gioie disseminate nel mondo,
sui nostri passi. E così sia. Forse è meglio così. Sarebbe forse pernicioso che
si scatenasse una nova moda dei sassetti al collo e sparissero in breve da
tutte le spiagge del mondo le gemme minute di cui la Natura le ha cosparse con
adorabile noncuranza.
RZ
Si,
non necessariamente grandi. In ogni perla di Indra, dice un detto indiano, si
riflette l’intero universo. Il tutto nel poco. Tutto il patrimonio genetico di
un essere in una cellula. Ologramma.
E’
bello il deserto con le dune maestose scolpite e levigate dal ghibli. Ma le
piccole dune di sabbia disegnate dalla brezza di mare che leviga e trasfigura
le antiche pedate dei bagnanti?
Coglile
di sera, quando le ombre si fanno più lunghe e contrastate.
O
nota le sculture di sabbia sagomate attorno ad un legno, ad una pietra. La
sabbia si configura attorno a quest’oggetto con leggi precise che non sembrano
ignare di estetica nel loro disegnarsi con curve nitide ed eleganti, con
ondulazioni ritmate e modulari.
O
quelle pietruzze di colori distinti che occhieggiano dal bagnasciuga. Nere o
verdastre. A volte gialle o rosso cupo. Con striature più chiare a forma di
croce obliqua a rilievo. Gioielli di cui non abbiamo il coraggio – a torto – di
fregiare il collo ed il seno. Solo perché di tali tesori lavorati dalla natura
e non dall’uomo ce ne sono tanti. Troppi, fino ad assuefarci, forse. Fino a
privarci dell’incanto di un lungo lavoro, attento. Operato dall’onda infinita e
paziente sulla battigia che ha tratto da un ciotolo informe una pietra levigata
e addolcita nei tratti che con amabile seduzione occhieggia emergendo appena
dall’arenile. Illuminata dall’acqua che la rende lucida ad ogni ansimare di
onda e dalle luci del giorno che la colorano di sempre diverse intonature.
Quasi feticci questi
corpi distesi, ora chiari di madreperla ora irsuti e scabrosi. Il carezzevole
gioco di ombre e luci che si disegnano sulle sabbie lavorate dal vento.
L’affiorare di pietre colorate e lucenti dall’incresparsi morbido delle spume
inesauste. L’incalzare spossante dell’onda che si abbatte irruente sulla
spiaggia dorata. Questi cieli di azzurri e di nubi che si addensano impetuose o
si dissolvono languide in spazi senza confini. Ed il sole violento
nell’incombere del suo meriggio o struggente nella piccola morte ineluttabile
che a sera lo attende. Il vento che sempre ti avvolge, incalzante o garbato,
carezzevole o minaccioso. Tutto. Tutto e l’insieme dei tutto … dà ad ogni
membro di questo articolato corpo – nel suo distendersi assorto, nel non sapere
di sapere di se stesso – il sapore dell’eros. L’ala del dio, ignaro e
infallibile, sfiora inafferrabile
luoghi non ancora abbandonati da ninfe e nereidi, da presenze suadenti che ti
attirano a giacere in questi luoghi dimenticati ed indimenticabili, come
fossero da sempre là, sin dai primordi dell’essere. Degli esseri che,
incamminatisi nei suoi luoghi deserti, si ritrovano parte di un unico tutto. RZ